Socialcom Italia - Gennaio 26, 2017

A tutti piacciono le (scienze delle) merendine (?)

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È la necessità di un agire coordinato che induce, nella società, il bisogno della comunicazione. Il consenso che presiede all’agire sociale può certamente essere estorto con la forza o con l’influenza strategica. Ma esiste consenso autentico solo se basato su «convincimenti comuni»

Jürgen Habermas

Questo long form è un viaggio nella memoria e nelle esperienze di tre professionisti in materia di comunicazione.
Quest’ultima,  come concetto e come ambito lavorativo, si presta a molte sfumature che ne fanno un circus che accoglie risorse di varia natura, estrazione, competenze.
Con Riccardo Esposito, blogger, autore di libri (e molte altre cose) e Benedetto Motisi, consulente seo, autore di libri (e molte altre cose) condivido un percorso di formazione umanistica (e non umanista) ma non condivido la professione lavorativa.
Pur orbitando nello stesso ambiente professionale, ciascuno di noi ha coltivato una sua competenza posizionandosi a  vario titolo in questo scenario che, a quanto pare, si  mostra foriero di opportunità.
Il ché non vuol dire necessariamente che sia El Dorado.

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Si può dire, senza remore, che proveniamo da percorsi di studio largamente bistrattati e che pure nel recente periodo potrebbero rivendicare una certa, se non autorevolezza, utilità.

Quanti amici hai che si occupano di comunicazione?
E quante persone conosci che si stanno formando sulla comunicazione digitale, i social media e quant’altro?

Quello che segue non è un manifesto di difesa di Scienze della Comunicazione, ma una serie (3) di riflessioni che condividiamo con voi per aprire un dialogo e un dibattito con un’ottica sistemica, più che particolare.

 

Riccardo Esposito

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Molti conoscono la mia storia come Riccardo Esposito come webwriter, blogger, copywriter, autore di My Social Web. Ma pochi sanno cosa ho fatto prima di lavorare in una web agency e incrociare la scrittura online. Beh, facciamo un salto indietro nel tempo. Nel 2002, quando ho deciso di iscrivermi a Scienze della Comunicazione a Roma. All’epoca questa facoltà era una scommessa, quasi un azzardo. I miei amici avevano scelto strade istituzionali: giurisprudenza, ingegneria, economia. Ed era facile sentire il peso del confronto.

C’era anche chi pensava di poter cambiare il mondo perché si era iscritto a chimica, e ti guardava dall’alto in basso perché tu eri un comunicatore. Come disse il padre di un mio amico, iscritto a giurisprudenza: “E che fai, comunichi?”. All’epoca non era facile, lo ammetto. Ma non lo era per chi rimaneva fuori dal cerchio magico di Via Salaria. Perché questa è la verità: per me seguire i corsi di Scienze della Comunicazione è stata una fortuna. Una salvezza. Mi sentivo speciale.

Grazie ai professori di questa facoltà ho imparato a pensare. ma pensare sul serio. In quel periodo le aule della facoltà erano frequentati da professori maiuscoli. C’era De Masi che era un’istituzione, e c’era Abruzzese che era un vero pensatore. Ho studiato i libri di questi docenti con avidità, rubando ogni parola. All’epoca i concetti di “Industria Culturale” e “Ozio Creativo” erano dolci come il miele, traducevano in parole delle idee che da sempre ronzavano nella mia testa.

Arturo di Corinto ha formato la mia scrittura, mi ha sbattuto in faccia la spocchia che mi portavo dietro dalle superiori. Anni passati scrivere bene, a pensare di scrivere bene. Per poi capire che comunicare bene è una storia, fare il compito in classe un’altra. Poi è arrivato Massimo Canovacci con l’antropologia culturale e tutto ha preso una strada diversa: siamo andati in Mato Grosso, presso la popolazione dei Borro, e abbiamo fatto esperienza didattica in Giappone. A Tokyo. E poi la facoltà di Scienze della Comunicazione mi ha abbandonato. Mi ha vomitato in mezzo alla strada e mi ha detto: “Ora so’ cazzi tua”.

Ma sai cosa? Mi ha preparato. I professori di questa facoltà mi hanno dato gli strumenti necessari per lavorare nel mondo della comunicazione. O meglio, della comunicazione online. Nonostante i mezzi tecnici ridotti (l’aula computer non era il massimo) le idee che circolavano erano queste: un giorno lavoreremo tutti con il computer, saremo sempre online, le professioni saranno legate al mondo di internet. E dei telefonini.

Scienze della Comunicazione mi ha dato tanto. Anche non volendo, sia chiaro. Quando ho studiato semiotica visuale c’erano decine di esempi, tutti dedicati ai quadri del rinascimento. Gli artisti seguivano le linee temporali, riproducevano la lettura dell’occhio sulla tela. E sai cosa? Tutto questo si è applicato sulla pagina web, ogni giorno lavoriamo sulla leggibilità dei documenti. Ignorando che la semiotica visuale aveva già spiegato tutto.

Così come la teoria critica della scuola di Francoforte aveva spiegato i rapporti economici della pubblicità, creando un legame forte tra tutti gli elementi del sistema. Alla fine, quando ho chiuso l’ultimo libro di Scienze della Comunicazione, mi sentivo spaesato. Poi mi sono reso conto che il percorso di studi era ben strutturato. E mi ha aiutato a capire qualcosa dei flussi comunicativi online.

 

Pierluigi Vitale
Pierluigi Vitale

 

Come Riccardo ho fatto l’intero percorso di studi in Comunicazione, dalla triennale alla magistrale, e l’ho fatto quando probabilmente le grandi ambizioni di questo nuovo corso di laurea cominciavano a vacillare.
Da ormai un paio d’anni  svolgo attività di ricerca in questo stesso campo. Insomma, ne sono – felicemente – prigioniero.
Dal punto di vista professionale ho trovato la mia dimensione – anche in modo fortuito,  se vogliamo – nell’analisi qualitativa e nella visualizzazione dei dati, dei big data, mettendo a frutto le poche competenze tecniche che ho acquisito in questi anni e i molti approcci teorici a tutto quanto sia espressione sociale per effetto dei mezzi di comunicazione.
Oggi ho un blog, Social Listening, dal quale condivido le mie analisi e le mie infografiche, che poi sono anche servizi e prodotti che vendo a privati e non solo, e mi occupo di formazione professionale in questi stessi ambiti, riscontrando spesso che là fuori c’è un sacco di gente che di comunicazione ha bisogno innanzitutto di sapere, di conoscere, di  imparare e poi di fare.
Gi studi di comunicazione, seppur ancora denigrati nella loro declinazione accademica, stanno alimentando un importante proliferare di professionisti – o sedicenti tali – e altrettanti enti di formazione in materia.
Ho visto diversi amici e colleghi non guardare di buon’occhio gli studi di comunicazione, salvo poi tentare tardivamente di diventare – o simulare – professionisti in tutte le nuove professioni che orbitano in questo ambito.
Sarebbe semplicistico dire che i social media e le nuove professioni del digitale  siano la panacea degli studi di comunicazione; la rivincita dei laureati bistrattati; la cura a tutti i mali.
Non v’è nesso diretto, ma sarebbe ingeneroso negarne la profonda assonanza.
Eppure in questo settore che vede emergere più o meno democraticamente cialtroni e professionisti,  molti di questi (da ambo i lati ma mi interessa parlare soprattutto dei competenti) sono cresciuti didatticamente a pane, Bauman e De Mauro: giusto per citare due recenti intellettuali scomparsi.
Lungi da me difendere il percorso di studi, non perché non lo ritenga utile,  ma proprio per la ferma volontà di non prendere posizione, visto che troppe sono le variabili che rendono diversi uno corso dall’altro; un ateneo dall’altro; un laureato dall’altro.
Per fare una riflessione di respiro più ampio, viviamo una fase storica in cui è difficile immaginare dei percorsi diretti che incardinino direttamente nel  mondo del lavoro. Circoscrivere la difficoltà del  trovare impiego dopo gli studi a chi segue percorsi di profilo umanistico diventa sempre più un luogo comune.
Se non esiste una vera e propria rivincita degli studiosi di comunicazione – o più in generale di chi ha fatto studi umanistici – sicuramente si percepisce un mutamento di contesto che inizia a rendere giustizia a chi tra questi ha saputo costruire un proprio percorso. È abbastanza scorretto anche parlare di “rivincita” visto che non necessariamente si può parlare di sconfitta, dato che che a più riprese i dati Almalaurea hanno presentato una realtà per l’impiego degli studenti di comunicazione non necessariamente tragica come quella percepita e raccontata.
La verità  sostanziale per chi ha fatto studi umanistici è che a laurea non è condizione né necessaria né sufficiente per lavorare. Occorre uno step in più, che sia la sintesi di tutto quanto appreso e si canalizzi in direzione di una delle professioni della comuncazione. I social media hanno rappresentato – nel mio caso –  esattamente questo, la strada verso cui dirottare le energie e consolidare un profilo professionale.
È pur ver che spesso in questi corsi di laurea  si annidano importanti sacche di ricercatori di pezzi di carta, col sogno del Grande Fratello…  ma immagino ve ne siano dovunque e che la narrazione non aiuti neanche in questo caso.
Il contesto economico sta cambiando. Il grande neo di questi corsi di studio è sempre stata la scarsa divulgazione di competenze pratiche, tant’è che i più meritevoli sono gli studenti che hanno saputo coltivarle in totale indipendenza.

E  se paradossalmente questa feroce rincorsa alla competenza tecnica avesse accelerato  i processi di sviluppo tecnologico e impoverito le capacità interpretative?

Ad oggi nel settore della comunicazione i professionisti più interessanti che guadagnano importanti spazi (e presumibilmente profitti) sono coloro che sanno dimostrarsi versatili; innovativi; attrattivi e creativi nel senso più letterale possibile, pur senza particolari – il ché non vuol dire nessuna – doti tecniche.
Nell’era dell’accessibilità degli strumenti e della narrazione di un mondo futuro sempre più robotizzato che assottiglia la necessità dell’intervento umano.
Nell’era in cui si attuano programmi di formazione in coding sin dalle scuole dell’obbligo, che porteranno gli adolescenti in età da università ad avere già un’importante vastità di conoscenze tecniche.
In un contesto dove il saper fare potrebbe addirittura risultare inflazionato, i lavoratori cognitivi potrebbero essere la risorsa scarsa su cui far leva.
Sono abbastanza sicuro che tra gli scienziati di merendine e altri generi alimentari non di prima necessità, vi siano molte risorse in grado di dare un importante valore aggiunto.

 

Benedetto Motisi

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In mezzo a due laureati nelle tradizionali Scienze delle Merendine (aka della Comunicazione) io ho scelto quella delle Patatine (aka Politiche). Per dirla in modo molto schietto, credo avesse ragione il prof. Dario Antiseri quando ci diceva, fra il serio e il faceto, che era buona giusto per imparare a leggere correttamente il giornale.

Va da sé che il valore aggiunto dell’ambiente universitario è l’ambiente stesso, che ti permette di crearti il primo network di relazioni da coltivare. Per questo le private (ho frequentato la LUISS, anche se non ho la R moscia e – calcisticamente – il budget di una squadra da salvezza in mezzo in tanti “Vicconi”) hanno senso nel sistema-Italia: crearsi un network di relazioni di valore in un casino atomico come la Sapienza o Roma Tre, che ho frequentato per un anno, necessità di più tempo.

Ad ogni modo, il mio modo di studiare smontando i concetti e rimescolandoli; mal si sposa con il tradizionale schema “imparo il libro e lo vado a ripetere a pappardella all’assistente del prof”; quindi sono un pessimo esempio da seguire a riguardo.

In ambito della comunicazione, e nel dettaglio per il Web, ci sono così tanti stravolgimenti, trend e cambi di passo che in confronto le finte di Ronaldo sono roba da strada sotto casa. Quindi la formazione DEVE essere costante e molto molto molto (ho già detto molto?) pratica. In questo senso, credo che il problema sia sistemico dell’Università e particolare nel ramo specifico della comunicazione.

Il rischio è che alla fine si studi comunicazione in ambito universitario giusto per avere una riga in più sulla sezione Formazione di LinkedIn, con il valore della “pecetta” a seconda di dove si è studiato. Non per fare l’elitario, ma ho visto con i miei foschi occhietti selezionatori di aziende più o meno grandi ghignare alla laurea con lode conseguita in una università non proprio prestigiosa. Si, ok, non è giusto e anche un po’ razzista ma il mondo non è buonista: il mondo è cinico. E quello della comunicazione ancora di più, dato che quella vincente sovverte gli schemi a seconda di far filtrare il messaggio il più chiaro e congruente possibile. E se deve coincidere con qualcosa, coincide con la realtà che è relativismo puro (Darione Antiseri, spesso accusato di apologia dello stesso, sarebbe un po’ orgoglioso credo).

Schematizzando: studia e approfondisci secondo il tuo metodo, se ti serve prendere il pezzo di carta, perché è uno status sociale, fallo ma non aspettarti che l’Università ti apra in modo diretto le porte a chissà quale fantasticosa opportunità. Te la devi andare a cercare anche all’interno di quell’arena: e te lo dice uno che all’epoca non l’ha fatto per nulla, perché troppo ingenuo/orgoglioso. Anzi, se il me di allora prendesse una macchina del tempo e venisse nel futuro mi sputerebbe in faccia. Ma, troppo impegnato nel suo sdegno, si farebbe fregare la macchina del tempo e allora tornerei indietro per sfruttare un po’ di occasioni. E giocare alle partite sapendo già i risultati.

Ma quella è la trama di Ritorno al Futuro e un’altra storia.

 

E tu? Cosa ne pensi del percorso umanistico universitario? Lo hai affrontato e ti è stato utile per lavorare nella Comunicazione?

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