Socialcom Italia - Novembre 3, 2016

Un clickbait a 5 Stelle: i titoli ingannevoli hanno fatto il loro tempo?

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Il clickbait delle pagine Facebook riconducibili, più o meno direttamente, al Movimento 5 Stelle è arrivato anche in Parlamento. Era il 29 giugno di quest’anno, quando il deputato Pd Paolo Coppola presentò interpellanza parlamentare sull’argomento insieme ad alcuni colleghi di maggioranza.

Nell’intervento si chiedeva quale fosse l’orientamento del Governo “sulla correttezza e liceità della pratica del cosiddetto clickbait, poste (sic) che tali comportamenti possono costituire una moderna forma di pubblicità ingannevole” e sollecitava “iniziative, anche normative, per regolamentare la materia”.

Per il governo rispondeva, una decina di giorni più tardi, Teresa Bellanova, viceministra allo Sviluppo Economico: “Il clickbaiting non può essere considerato una forma di pubblicità ingannevole”, perché con questa pratica “non è in discussione il contenuto del messaggio pubblicitario, ma il metodo di diffusione della pubblicità”.

Al di là del gergo giuridico, crescono i dubbi sulla correttezza e l’eticità del clickbait, una pratica ritenuta dai più odiosa e ingannevole. E persino Zuckerberg si è dovuto attivare per mettervi un freno.

Clickbait: cos’è, come funziona

Con l’espressione clickbait si intende generalmente l’utilizzo di titoli o post volutamente esagerati, dal tono allarmistico o indignato, per presentare un contenuto web sui social network. E indurre in questo modo gli utenti a fare clic, con tutto ciò che ne deriva in termini di ricavi pubblicitari per il sito.

In italiano è spesso tradotto con l’espressione “acchiappa-clic”, ma l’etimologia inglese è forse più adatta: bait è l’esca utilizzata dai pescatori e to bait significa tra le altre cose adescare.

Uno degli esempi più recenti (e che ha suscitato maggior clamore), renderà l’idea:

(Se non vedi il post clicca qui)

Come presentare un avvenimento drammatico di vent’anni fa come se fosse oggi. La Strage di Capaci è avvenuta 24 anni fa, il 23 maggio del 1992. L’utilizzo delle parole nel post e nel titolo del link sulla pagina di Grillo sono clickbait puro e semplice: non spiegano chiaramente di cosa si tratta e si presenta l’avvenimento quasi come se fosse appena avvenuto. In questo modo si spinge la curiosità dell’utente distratto o ignaro ad andare a cliccare.

Cliccando sul link, inoltre, difficilmente si riesce a trovare una correlazione con il titolo utilizzato. Certo, si parla dello stesso drammatico avvenimento, ma la pagina rimanda a un’intervista a Giuseppe Costanza, autista di Giovanni Falcone e sopravvissuto alla strage.

Questo è il commento più “mipiaciato” al post:

Il giorno dopo, Fabio Salamida su “Gli Stati Generali” scrive un pezzo dal titolo Beppe Grillo lucra sul sangue di Capaci. Quando la vergogna si misura in click, dove leggiamo:

Click-baiting sul sangue di Capaci, la squallida esca attira contatti confezionata anche in questo caso con lo scopo di far soldi in modo subdolo, magari giocando sull’ignoranza e sull’ingenuità di qualche navigante che non riconoscendo il luogo della foto avrà pensato a qualcosa accaduto in quelle ore.

Le pagine della “galassia grillina”

Con il clickbait ci hanno sguazzato e ci sguazzano in molti. Non solo siti bufalari e blog medio-piccoli. Anche quotidiani e riviste blasonati. La Casaleggio Associati, la società di consulenza per strategie digitali che gestisce il blog di Grillo e una serie di siti web collegati, sembra però avere una predilezione particolare per lo strumento.

Alessandro Gazoia, saggista e autore del volume Il web e l’arte della manutenzione della notizia. Il giornalismo digitale in Italia, ha scritto (quando Gianroberto Casaleggio era ancora in vita):

Oggi, se dovessi organizzare una tavola rotonda sul clickbait, sicuramente non potrebbero mancare Casaleggio e Salvini

Oltre alla pagina ufficiale di Beppe Grillo, al clickbait ricorrono con una certa frequenza anche la pagina Facebook ufficiale del Movimento 5 Stelle e tutta una serie di blog e testate online riconducibili alla Casaleggio: TzeTze, La Fucina, La Cosa.

Ma la pratica funziona? Mauro Munafò e Luca Piana de L’Espresso hanno provato a fare i conti in tasca ai ricavi pubblicitari delle pagine citate, dopo aver chiesto dati esatti sull’argomento alla Casaleggio Associati, senza riceverne risposta.

Non resta che affidarsi a qualche ipotesi”, scrivono, “partendo dai dati di Google Adsense, la piattaforma che cura la pubblicità sui siti del sistema. Su TzeTze e LaFucina ogni settimana vengono visualizzate 3-4 milioni di “impression” (pubblicità), mentre il blog di Grillo da solo arriva a 5-10 milioni di spot a settimana. Passare da questi numeri ai dati dei ricavi, non è facile: una stima prudente per siti generalisti e di news permette di indicare tra i 50 centesimi e 1,5 euro di incassi ogni mille visualizzazioni, a cui vanno tolte le commissioni.

Questi calcoli porterebbero a collocare tra i 300 e i 700 mila euro annui i ricavi del blog di Grillo e tra i 100 e 300 mila per TzeTze e poco meno per LaFucina. Se le stime fossero corrette, e se i soldi della pubblicità non finiscono altrove, come ipotizza qualcuno, ne verrebbe però una conseguenza. È cioè che la Casaleggio, pur senza arricchirsi, è sempre più un’azienda-partito. Perché tolti i soldi che arrivano dai siti grillini, di altro business ne resterebbe poco”.

Clickbait: perché dovrebbero smetterla

Nella consapevolezza degli utenti online e delle dirigenze dei social network più diffusi, Facebook in testa, il clickbait sta diventando più un problema che un’opportunità. Forse il tempo dei titoli fuorvianti e dei post allarmanti non è ancora scaduto, ma probabilmente si avvia verso un lento declino.

È un problema di fiducia, innanzitutto. Il click-baiting è una “delle strade più facili, per una pagina, di perdere la fiducia della propria audience nel corso del tempo”, scrivono Anna Escher e Anthony Ha su TechCrunch.

L’utente può essere spinto al clic la prima volta, ma un lettore consapevole finirà per togliere il like alla pagina se la pratica diventa eccessiva e reiterata. “Utilizzare troppo il clickbait come strategia social implica che tu editore non comprendi la tua audience. Tratta i tuoi follower da persone intelligenti e ricorda quanto è difficile coltivarne la fiducia”. Escher e Ha lanciano un messaggio anche agli utenti: “I vostri siti preferiti dovrebbero comportarsi come si fa in una relazione di lungo periodo. Dovrebbero investire in voi, con titoli accurati e accattivanti che conducano ad articoli giornalistici di qualità”.

Nemmeno sembra valere l’assunto che l’utente attirato con un escamotage resterà poi fedele alla pagina o al giornale, quando gli si proporranno contenuti seri e ponderati. L’assioma non funziona, argomenta Jeffrey Dvorkin della Pbs.

C’è infine una questione tecnica di cui tener conto. Ed è l’algoritmo di Facebook, il software cioè che ‘produce’ una bacheca di contenuti personalizzati per ogni accesso effettuato dal singolo utente.

Più di una volta i vertici di Menlo Park hanno dichiarato guerra al clickbait. L’ultima ad agosto di quest’anno, quando hanno annunciato un nuovo sistema che “identifica le frasi comunemente utilizzate nei titoli clickbait”. Lo scopo era di bloccarne la diffusione, chiaramente. Anche perché “le persone ancora ci comunicano che preferirebbero vedere titoli scritti chiaramente, che li aiutino a decidere come spendere il proprio tempo, senza sprecarlo inutilmente”.

Foto: Niccolò Caranti