“Facebook, Google e Twitter hanno aiutato l’ISIS”: la denuncia choc

Ancora una volta, l’Europa ha paura. Se verranno confermate le ipotesi iniziali degli inquirenti tedeschi, quello di ieri a Berlino è stato un attentato terroristico in piena regola. 12 morti e decine di feriti. Famiglie devastate, una città (e una nazione) scossa dal punto di vista emotivo e morale.
Quando veniamo colpiti così duramente, cerchiamo sempre dei responsabili, dei colpevoli verso cui puntare il dito. Già da diverso tempo, la Rete viene accusata di fare da volano al messaggio di terroristi e jihadisti: sulle tecniche comunicative di gruppi come l’ISIS si sono sprecati fiumi di byte e inchiostro, sui giornali di tutto il mondo.
Ma è possibile accusare i media online per la diffusione di messaggi creati da terzi, su cui non abbiamo alcun controllo? Secondo le famiglie delle vittime, sì. È quanto sta succedendo negli Stati Uniti in queste ore.
“Facebook, Google e Twitter favoriscono il terrorismo”
Secondo un’esclusiva di Fox News, i familiari delle vittime della sparatoria di Orlando hanno intentato una causa civile nei confronti di Twitter, Facebook e Google, per aver fornito “material support” (letteralmente, supporto materiale) allo Stato Islamico. Attraverso questi canali, l’ISIS avrebbe radicalizzato Omar Mateen, il 29enne che ha ucciso 29 persone, ferendone 53, all’interno del locale Pulse, un night club gay di Orlando, in Florida, il 12 giugno di quest’anno.
Con l’espressione material support, nel gergo legale degli Stati Uniti si intendono delle specifiche azioni condannate nello USA Patriot Act. Sono 4 le fattispecie previste dal reato: addestramento, assistenza o consiglio da esperti, servizio, personale.
Secondo le famiglie di Tevin Crosby, Javier Jorge-Reyes e Juan Ramon Guerrero, i 3 servizi web più noti al mondo avrebbero “fornito al gruppo terroristico ISIS degli account utilizzati per diffondere propaganda estremista, raccogliere fondi e attrarre nuove reclute“.
Senza Twitter, Facebook e YouTube, sostengono i querelanti, “la crescita esplosiva dell’ISIS negli ultimi anni non sarebbe stata possibile“.
Interpellati da Fox, i 3 colossi del web hanno per ora deciso di non rispondere alle accuse. Secondo l’avvocato che rappresenta le famiglie, Keith Altman, malgrado i 3 social abbiamo più volte disattivato gli account affiliati ai gruppi terroristici, nuovi profili venivano immediatamente creati. “Le aziende credono di non essere responsabili, perché non sono loro ad aver prodotto i contenuti“, spiega Altman.
Non è la prima volta che le famiglie delle vittime del terrorismo denunciano social e motori di ricerca. È già successo all’inizio di quest’anno: Tamara Fields ha denunciato Twitter dopo aver perso il marito durante l’attacco in un centro di addestramento della polizia in Giordania. Pochi mesi dopo, la famiglia di una vittima degli attacchi di Parigi ha denunciato Facebook, Google e Twitter. La ragione è sempre la stessa: material support allo Stato Islamico e ad altri gruppi terroristici.
Il database dell’antiterrorismo sul web
Proprio all’inizio di dicembre, Facebook, Twitter, YouTube e Microsoft avevano lanciato un’iniziativa comune per contrastare la diffusione dei messaggi e della propaganda terrorista. Nel dettaglio, social e motori di ricerca si impegnavano a creare un database condiviso con le foto e i video utilizzati dai gruppi terroristi per reclutare nuovi affiliati. Una mossa per rendere più semplice l’identificazione e la rimozione di tali messaggi.
“Non c’è spazio per i contenuti che promuovono il terrorismo sui nostri servizi”, spiegavano le aziende in un comunicato congiunto. “Quando siamo allertati, agiamo rapidamente contro questo tipo di contenuti, in accordo con le nostre rispettive policy“.
Foto: Day Donaldson

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