Le maggiori sfide dell’economia e dell’umanità per il Global Risk Report

Quali sono le maggiori sfide dell’economia e dell’umanità nei prossimi anni, e quali i rischi che affronteremo? Prova a rispondere a questa domanda un team di 750 esperti all’interno del Global Risk Report, pubblicato sul sito del World Economic Forum. Tra gli studiosi che hanno realizzato il report anche un italiano, Walter Quattrociocchi responsabile del CSSLab presso l’IMT – School for Advanced Studies di Lucca, lo intervistiamo qui.
Ecco una sintesi di quello che emerge nella prima parte del report. Le successive riflessioni saranno pubblicate su Socialcom nei prossimi giorni.
Trump, la Brexit e le minacce alla globalizzazione
Lo studio parte dall’analisi del contesto sociopolitico che ha visto la vittoria dei nazionalismi e populismi in Europa e nel mondo, come la Brexit e la vittoria di Donald Trump . I motivi di questa de-globalizzazione vanno ricercati nella mancanza di una reale ripresa economica e nella sfiducia verso i governi nazionali, ritenuti incapaci di affrontare la crisi. Un clima di incertezza che dall’Europa si espande in altri Paesi, come il Brasile, la Turchia e Le Filippine.
Più in generale, il report spiega su quali fronti lavorare per affrontare nel migliore dei modi le sfide che attendono l’umanità nel prossimo futuro:
- Rendere i mercati più solidi, favorendo una visione a lungo termine del mondo finanziario
- Dare di nuovo slancio alla crescita economica globale
- Favorire l’inclusione delle persone all’interno delle comunità
- Mitigare i rischi e sfruttare le opportunità della Quarta Rivoluzione Industriale
Come favorire la crescita
Il report evidenzia come in molti Paesi il malessere sociale sia cresciuto e abbia contribuito allo sviluppo di movimenti che attaccano l’establishment e populismi, scagliandosi contro la promessa di benessere della globalizzazione: «Servono delle riforme del mercato capitalistico, in particolare bisogna cercare nuovi modi per creare solidarietà tra chi è in cima alla classifica dei guadagni e della distribuzione della ricchezza e chi è in basso», sottolinea il report.
L’ineguaglianza economica è il primo tema su cui si focalizza l’attenzione dei ricercatori. Dal 1980 in poi la disparità nel trattamento dei salari è aumentata in alcuni Paesi come Stati Uniti, Canada, Irlanda e Australia. Tra i motivi principali che hanno condotto all’incremento del gap, il report annovera le nuove frontiere della tecnologia che hanno alimentato la competizione tra talenti nel mondo del lavoro e aumentato la disparità nel trattamento economico.
Anche nei Paesi emergenti, la crescita dei salari della classe media procede a un passo lento, inserendosi in un contesto in cui la ripresa economica è ancora lontana. In queste nazioni, anche se la povertà è in netto calo, sono aumentati i sentimenti anti-estabilshment. Pensiamo alle manifestazioni contro la corruzione politica in America Latina: «Le classi medie quando aumentano la loro prosperità iniziano a pretendere un governo migliore, servizi pubblici di qualità, che molti dei politici del mondo in via di sviluppo non sono capaci di offrire», si legge ne report.
L’avanzare della crisi economica ha portato molte nazioni ad adottare politiche economiche monetarie e non fiscali. Le banche centrali hanno iniziato a immettere nuova moneta nel sistema e a ridurre i tassi di interesse. Manovre che nel breve termine hanno avuto impatti positivi sull’economia, con la crescita dell’occupazione, anche se i salari dei lavoratori sono aumentati a un ritmo troppo basso.
Gli interessi più bassi hanno, tuttavia, indebitato ancora di più le aziende che non sono state spronate a spostare risorse da rami del business poco promettenti a quelli più innovativi:
«Ma non sarebbe il momento di passare da una politica monetaria a una fiscale?», si chiede il report in una situazione in cui i nuovi leader mondiali, come Donald Trump, hanno promesso un aumento delle spese in infrastrutture. Nuovi soldi nel sistema e nuovo indebitamento?
Al di là della politiche monetarie e fiscali, la crescita della produttività è ancora lenta per sperare di uscire dalla crisi. Il tasso di disoccupazione resta alto e anche la speranza di una spinta dei mercati emergenti è messa in discussione dalla transizione che attraversano molti Paesi come la Cina, da una supercrescita a un rallentamento. Eppure la crescita e un’equa distribuzione della ricchezza dovrebbero diventare, secondo il report, la priorità delle agende dei politici di tutti i Paesi. Perché è proprio da questi aspetti, dall’unione cioè di ineguaglianza economica e polarizzazione politica, che si pongono le radici della fragilità della solidarietà sociale, sulla quale si poggia la legittimità del nostro sistema politico ed economico:
«Servono nuovi sistemi economici e paradigmi politici per vincere la disillusione popolare. Si deve partire da delle politiche che permettano a tutti di fare proprie le nuove competenze tecnologiche, di avere servizi migliori (pubblici o privati) e un sistema di governance capace di dare potere agli individui nella loro comunità, senza sacrificare i loro interessi per i molti benefici della globalizzazione», spiega il report.
Bisogna ricostruire il senso di comunità
La polarizzazione crescente della società (economica, culturale, politica) è percepita come una delle sfide da affrontare più importante dei prossimi 10 anni. La polarizzazione è figlia del fallimento delle politiche nazionali incapaci di evitare il sorgere di profonde fratture e dell’instabilità sociale, che ne è la diretta conseguenza. Nel mondo occidentale – continua il report – decenni di cambiamenti politici ed economici hanno aumentato i gap nei valori delle generazioni, rafforzato l’individualismo e distrutto il senso di affiliazione e comunità. Questa è una delle chiavi per capire il ritorno dei populismi, la vittoria della Brexit, come il trionfo elettorale di Donald Trump.
I populismi non sono solo frutto di una disparità economica. Il report spiega come molti partiti siano stati incapaci di trovare un contatto reale con la base del loro elettorato. I venti del populismo che soffiano nel mondo occidentale sono un rischio per le democrazie e per la coesione sociale e culturale: «Le divisioni attuali della società americana rischiano di minare alle stesse istituzioni e norme su cui è fondata», spiega il report.
Tecnologia: gestire la rivoluzione
Un’altra sfida per l’umanità che emerge nel report è quella tecnologica. I nuovi dispositivi hitech sul mercato hanno cambiato il modo in cui il mondo produce, comunica, usa l’energia e lavora. Quella che è la Quarta Rivoluzione industriale rischia di schiacciare molte categorie professionali che potrebbero scomparire completamente. La ricerca riporta alcuni studi come quello di Oxford Martin School secondo il quale più del 47% dei lavori negli Stati Uniti potrebbero sparire nei prossimi anni, proprio in virtù dei nuovi processi di automazione.
Qui la questione chiave è come gestire le dinamiche della Quarta Rivoluzione Industriale e capire quali sono i reali benefici e i rischi. Per ora, spiega il report, la risposta dei governi a questi temi è stata molto lenta. Ci sono voluti otto mesi per garantire ad Amazon il diritto di usare i droni per le consegne, ma dopo tutto quel tempo un modello innovativo corre il rischio di diventare obsoleto. I ritardi dei governi possono causare tuttavia delle ripercussioni a livello sociale. Se le persone non possono beneficiare dei vantaggi dell’innovazione finiranno per scagliarcisi contro: «Anche se i movimenti populisti si sono ribellati alla globalizzazione, c’è il rischio che passino a bloccare l’innovazione tecnologica», spiega il report.
Favorire la cooperazione
La polarizzazione e il clima di sfiducia nell’establishment hanno minato anche i processi di cooperazione internazionale. Molti Paesi hanno scelto di isolarsi e mettersi fuori da accordi e patti internazionali. È il caso di Russia, Sudafrica, Burundi e Gambia che si sono ritirati dalla Corte penale Internazionale. Il presidente eletto degli Stati Uniti sta pensando di disattendere gli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Ma gli esempi potrebbero essere tanti.
La situazione è molto più delicata di quello che si pensi: l’assenza di accordi tra Stati e di una potenza internazionale legittimata, conducono per esempio alla confusione che regna sovrana nel conflitto siriano, in cui diversi Paesi combattano su fronti opposti.
La mancanza poi di fiducia in organismi di sicurezza sovranazionali, ha portato molte nazioni ad armarsi nuovamente: con armi tradizionali e perfino sperimentazioni nucleari.
La questione ambientale
L’ultima sfida citata nel report riguarda la difesa dell’ambiente, legata a ognuno dei punti precedenti. I cambiamenti climatici e la scarsità di acqua potabile possono infatti aumentare i rischi geopolitici e sociali, come i conflitti regionali e la conseguente migrazione. Il report ammette che sul fronte ambientale sono stati fatti diversi progressi nel 2016 e cita alcuni degli accordi che sono stati ratificati sulla questione. Il più importante è sicuramente quello di Parigi dove 110 Paesi hanno siglato un patto per combattere i cambiamenti climatici.
«Tuttavia, il passo del cambiamento non è abbastanza veloce. Le emissioni di gas serra sono aumentate fino a raggiungere le 52 miliardi di tonnellate l’anno. Per la prima volta la temperatura mondiale è aumentata di un grado Celsius, rispetto alle media misurata nei decenni passati. Mentre il National Oceanic e l’Atmospheric Administration hanno svelato che gli otto mesi che vanno da gennaio ad agosto 2016 sono stati i più caldi negli ultimi 137 anni. Servono nuove alleanze tra diversi attori, nuove colazioni capaci di superare gli interessi nazionali. Queste cooperazioni dovranno essere capaci di rispondere adeguatamente ai rischi strutturali posti dai cambiamenti climatici e dalla crisi idrica», conclude il report.

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