Marco Castelnuovo (Corriere) spiega come sarà il giornalismo del futuro con social e mobile

Su Twitter ha più di 58mila follower, @chedisagio, Marco Castelnuovo, oggi è mobile editor per Corriere della Sera. Un passato a La Stampa, oggi ha creato al Corriere una redazione che si occupa solo di creare e veicolare contenuti via mobile, il primo caso nel nostro Paese. Lo abbiamo incontrato alla Festa della Rete, dove era tra i nostri ospiti. Ecco cosa ci ha detto.
Il Corriere ha una redazione per i contenuti solo per il mobile. Come è nata?
«Siamo il primo giornale in Italia ad aver fatto questo passo. Da quando sono arrivato al Corriere, circa sette – otto mesi fa, i numeri sul mobile sono esplosi. Questo perché le nuove tecnologie (4G, wifi) hanno contribuito a uno spostamento del traffico su mobile. La gente si è diretta dal desktop allo smartphone. È un pubblico che legge e non scrolla soltanto, come si pensa. L’abilità di chi fa contenuti è quella di sfruttare i canali social, per portare traffico. L’80% delle persone che si collega a Facebook lo fa ormai da mobile».
Come si fa a catturare questo tipo di pubblico da mobile, e a monetizzare?
«Il mio principale competitor sul mobile non è Repubblica, ma CandyCrush, Facebook, WhatsApp. Per portare il lettore a leggere un pezzo bisogna scriverlo bene ed essere coinvolgente, anche perché la lettura in mobilità non è comoda come quella da casa. Per monetizzare usiamo il paywall e chiuderemo l’anno con 35mila abbonati a 10 euro al mese. Per fare bene, non bisogna pensare a catturare milioni di utenti, ma a dare importanza a quelli che si hanno, coccolandoli, ascoltandoli, coinvolgendoli. È meglio non pensare a tanti numeri, ma partire da quelli che si hanno per costruire una community. A me di avere 3 milioni di “mipiace” su Facebook non interessa molto».
Come vanno sfruttati i social da chi fa contenuti?
«Facebook, per fare un esempio, si è trasformata da piattaforma di distribuzione a una piazza in cui la gente va, discute e dibatte. Credo che sia questo il senso in cui va sfruttato il canale, organizzare eventi sul brand, un po’ come si fa online, sfruttando lo streaming e gli altri strumenti video messi a disposizione. Lo scopo non deve essere quello di vendere copie in più, ma di costruire una community che riconosca nel brand un punto di riferimento».
Un tema molto caldo è quello delle notizie false. Cosa è possibile fare su questo fronte?
«Può diventare un trend, quello per esempio di scrivere pezzi dove si smontano le bufale che si vedono sui social. Sono di solito pezzi che vanno anche bene in termini di traffico. Articoli del tipo “Quello che hai letto è sbagliato” sono un modo per trasformare un problema in un’opportunità. Sulla fake news poi trovare soluzioni è molto difficile e non vorrei che fossero Facebook e Google a dirci cosa è falso o cosa è vero. Un’idea potrebbe essere premiare sui motori di ricerca quelle notizie fatte da giornalisti che vanno sul campo, che scattano foto, che sono testimoni del fatto che raccontano».
Come vedi il futuro del giornalismo nell’era dei social media? Sei pessimista, ottimista?
«Non sono pessimista sul giornalismo. Non ci sono mai state tante occasioni per raccontare storie. La crisi semmai è delle case editrici, ma sono sicuro che si troverà una quadra. Penso che un grande giornale, come il Corriere, non debba pensare di essere il primo ad arrivare sulle notizie (per questo ci sono social come Twitter). L’obiettivo semmai è di arrivare sulla notizia, nel più breve tempo possibile, e farlo essendo impeccabili, specie quando con il paywall offri un servizio a pagamento.
La qualità dei contenuti paga. Purtroppo in Italia scontiamo un ritardo imprenditoriale. Negli Stati Uniti i pezzi ottengono pubblicità sulla base del tempo di lettura, immaginando che più la gente sta sull’articolo, maggiore è il suo valore. In Italia al contrario gli inserzionisti considerano ancora le pagine viste e questo porta a creare contenuti di qualità più scadente».

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