Native Advertising: cos’è e quanto vale

La pubblicità che non sembra pubblicità. Il native advertising è un contenuto sponsorizzato da un brand, che si inserisce senza forzature all’interno di un flusso regolare di contenuti (la bacheca di Facebook, per esempio). Sul web, ma non solo: format di questo tipo esistono almeno da inizio ‘900 e li abbiamo visti anche sui giornali cartacei, in tv e in radio.
Un esempio ne sono i cosiddetti contenuti brandizzati: articoli e post che sembrano a prima vista dei normali contenuti di un sito web giornalistico o di un blog di informazione, ma che in realtà vengono indicati come ‘sponsorizzati’ all’interno del pezzo stesso.
Al contrario dell’interruption marketing tradizionale, il native adv viene offerto ai lettori come un contenuto qualsiasi. E per questo assume maggior valore: non viene (o non dovrebbe essere) percepito come spam. Cattura quindi l’attenzione dell’utente, aumenta l’engagement e contribuisce (in teoria) a creare un rapporto di fiducia, che la pubblicità tradizionale ha ormai perduto.
Ci sono dei “ma”, ovviamente. E in molti si stanno interrogando sull’effettiva utilità e moralità di questo strumento.
I 6 formati del native advertising
Non solo articoli sponsorizzati. L’Interactive Advertising Bureau (IAB, associazione di categoria delle imprese di comunicazione e pubblicità) USA ha identificato 6 forme di native advertising:
- Annuncio In-feed, gli annunci che compaiono sulle bacheche dei social network
- Search ads, i risultati sponsorizzati che compaiono nella SERP dei motori di ricerca
- Recommendation widget, riquadri in pagina che contengono i cosiddetti post ‘raccomandati’ o correlati
- Promoted listing, inserzioni sponsorizzate, che rientrano nella normale pagina di ricerca di un sito di ecommerce
- IN-AD (IAB standard): sono gli annunci tradizionali, ma sono integrati nel flusso editoriale e presentano al loro interno un contenuto contestualizzato (native)
- Custom unit, contenuti pubblicitari nativi personalizzati a seconda delle esigenze del cliente.
(Per approfondimenti sui formati del native adv, lo IAB Italia ha realizzato una guida).
I numeri del native advertising
Secondo il Politecnico di Milano, il native advertising in Italia vale 1,2 miliardi di euro al 2015. Numero che rappresenta il 16% sul totale degli investimenti in display advertising.
Lo studio Native Advertising in Europe to 2020 di Yahoo e Enders Analysis, parla di una crescita esponenziale del settore in tutta Europa: +156% nei prossimi 4 anni, per un totale di 13.2 miliardi di euro. Buona parte dei nuovi investimenti sarà in mobile e il native social advertising incrementerà del 300%.
Negli USA, il settore crescerà di 5 volte in 5 anni (2013-2018), raggiungendo i 21 miliardi di dollari.
Native advertising: Pro e Contro
Joline Buscemi di HubSpot ha fatto un elenco dei Pro e Contro di questa forma di pubblicità.
Quando è fatto bene, il native adv è rilevante e utile per il lettore, permettendo allo stesso tempo di migliorare la riconoscibilità del marchio o del prodotto. Può addirittura avvicinarsi, di molto, al buon giornalismo. Un esempio è quello del New York Times, che ha ospitato un contenuto sponsorizzato da Netflix intitolato Women Inmates: Separate But Not Equal, sulla discriminazione di genere nelle carceri. L’inchiesta aveva la funzione di promuovere Orange is the New Black, serie tv ambientata in un carcere femminile americano.
Il problema principale con il native advertising è che i lettori possono sentirsi “traditi”: si aspettano un contenuto giornalistico e invece trovano una bella copia di una brochure pubblicitaria. Raramente un marchio desidera essere bollato come disonesto, cosa che potrebbe succedere con questa forma di pubblicità ‘al limite’.
Restrizioni
Proprio per prevenire questo tipo di problemi, il dibattito è aperto sulle possibili restrizioni allo strumento. Lo IAB ha già da tempo indicato delle linee guida. La più importante? La cosiddetta disclosure: un contenuto sponsorizzato va indicato chiaramente come tale.
Secondo quanto ha rivelato Bloomberg, inoltre, sia gli Stati Uniti che il Regno Unito stanno irrigidendo i controlli sul native advertising. La Federal Trade Commission (Commissione Federale del Commercio) americana ha prodotto una propria guida sull’argomento, annunciando un giro di vite sugli “annunci presentati in modo ingannevole”. L’Advertising Standards Authority Uk ha deciso di censurare il Telegraph, per un contenuto sponsorizzato da Michelin, e di richiamare Buzzfeed per un post della tedesca Henkel.
Foto: Joe The Goat Farmer on Flickr

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