Socialcom Italia - Dicembre 1, 2016

#FdR16, Andrea Prandi: “Comunicare un’azienda online? La trasparenza è un must”

Andrea Prandi, prossimo ospite Socialcom a #fdr16, ci spiega le strategie per comunicare efficacemente online

Lo scenario digitale in Italia, i rischi e le opportunità per un’azienda che utilizza il web e i social media per comunicare ai clienti, la gestione delle informazioni nell’era di Facebook: un colloquio a 360 gradi quello con Andrea Prandi. Prossimo ospite di Socialcom alla Festa della Rete di Milano (#fdr16), Prandi è stato per 12 anni direttore delle relazioni esterne e comunicazione di Edison.

Nasce come giornalista, primo incarico al Resto del Carlino, ha poi lavorato per l’agenzia di comunicazione Edelman, con Omnitel/Vodafone e Indesit ed è stato membro dell’Unità di missione governativa per l’Agenda Digitale, istituita dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ha quindi potuto vivere da protagonista i cambiamenti in atto nel mondo della comunicazione degli ultimi decenni.

Sabato 3 dicembre sarà nostro ospite alla Festa della Rete, durante l’evento “Rischi e opportunità della comunicazione al tempo dei social, i protagonisti raccontano” (per saperne di più, clicca qui).

A che punto è l’Italia digitale?

«Siamo partiti molto indietro rispetto ad altri Paesi simili al nostro, ma oggi stiamo facendo qualche passo in avanti. Il digital divide resta molto forte, anche se il governo sta provando ad aiutare le imprese a modernizzarsi, per esempio con la fatturazione elettronica. I problemi principali li registriamo sulla bassa velocità della banda e sui cittadini che non vivono nelle grandi città».

La comunicazione digitale nel nostro Paese è già affermata o ha bisogno di maturare?

«Gli operatori del settore si sono resi conto del radicale cambiamento avvenuto, anche se in tempi diversi. Ormai anche da noi il mix di comunicazione vincente richiede l’utilizzo di vari canali, tra cui i social media. Manca a volte la formazione necessaria, anche per una questione anagrafica: molti non riescono a essere davvero innovativi e a comprendere il giusto mezzo su cui comunicare un messaggio. Si tratta di un problema in ogni caso marginale: la maggior parte ha una certa flessibilità culturale che gli consente di adottare il marketing mix più adatto».

Come cambia il modo di lavorare dei comunicatori in funzione dei new media?

«Qualche anno fa, un professionista poteva fare la differenza in questo lavoro grazie alla sua agenda dei contatti e al numero di giornalisti che conosceva. Oggi la differenza la fa la capacità di innovare. Soprattutto, un bravo manager deve saper disegnare una strategia di comunicazione adattiva, che sia cioè flessibile e possa essere cambiata nel corso dell’anno, sfruttando al meglio le possibilità e gli strumenti esistenti».

A essere mutato è sicuramente il ruolo degli intermediari: oggi la comunicazione è sempre più diretta, dall’azienda al consumatore. Questo rappresenta un’opportunità o un rischio?

«La disintermediazione è per le aziende sicuramente un’opportunità. Fino a qualche anno fa, era necessaria l’intermediazione di tv e giornali. Oggi, le aziende si trasformano in una sorta di media company: possono produrre dei contenuti direttamente per YouTube. Possono poi avvalersi dell’intervento di endorser e influencer online, come i blogger di successo, ricevendo così maggiore consenso dall’audience».

I contenuti postati online possono però rappresentare anche un rischio: la reputazione costruita in anni di lavoro può essere distrutta da un post o da un Tweet sbagliati.

«Certo, se l’azienda decide di essere presente sui social deve prestare attenzione a ciò che comunica e a come lo comunica, destinando anche il giusto numero di risorse umane, preparate e formate adeguatamente allo scopo. È impensabile aprire una pagina ufficiale su Facebook e poi lasciarla a se stessa, rischiando che diventi esclusivamente il luogo dove si concentrano le lamentele dei clienti. Problemi gravi possono anche nascere per chi lancia una campagna social sbagliata, che tocca dei nervi scoperti della propria audience. Anche perché gli utenti sono più portati a reagire in negativo che in positivo».

A questo proposito: come si reagisce correttamente a una crisi?

«Sicuramente, quello che premia, anche sul lungo periodo, è la trasparenza. Un caso interessante è quello di Samsung e della crisi scoppiata in occasione del lancio dei Galaxy Note 7, le cui batterie esplodevano a ripetizione. In quel caso l’azienda è stata trasparente da subito, informando a dovere i clienti e ritirando il prodotto appena questa strada è risultata necessaria. Una mossa secondo me vincente e che è stata molto apprezzata sui social. D’altra parte, però, i dubbi restano: il problema con i Note ha creato comunque una spaccatura con i clienti e gli utenti online hanno fatto emergere diversi altri punti critici sui prodotti dell’azienda hi-tech. Un fatto che sta premiando i concorrenti nel breve periodo».

In altri tempi forse sarebbe stato più semplice contenere gli effetti di questa pubblicità negativa…

«Sarebbe stato più semplice, sì, ma gli effetti negativi sarebbero stati evidenti in ogni caso. Ricordo di aver sperimentato un caso simile lavorando alla Indesit. C’erano delle lavatrici i cui oblò si aprivano all’improvviso, provocando danni: ci furono anche dei ferimenti tra alcuni bambini. Questo successe in Inghilterra. E la nostra decisione fu uguale a quella di Samsung: ritirammo tutti i prodotti difettosi. Allora non c’erano i social, ma c’era la tv: e quindi un nostro rappresentante andò alla BBC, al programma WatchDog, per spiegare esattamente il problema e come lo stavamo gestendo. Sul lungo periodo siamo stati premiati: la serietà di un’azienda che richiama i propri prodotti difettosi e interviene tempestivamente, aiuta a creare un vantaggio reputazionale. Abbiamo anche avuto una crescita delle vendite».

A proposito di media tradizionali, secondo lei c’è una forma di arroganza di giornali e tv nei confronti del canale digital e dei social media? Lo abbiamo visto con le elezioni di Trump: sembra che questo tipo di eventi colga di sorpresa i media tradizionali, che non comprendono la forza dirompente del nuovo mezzo.

«Non credo che i giornalisti abbiano dei dubbi sul fatto che i social rappresentino un canale fondamentale oggi. C’è l’esempio di Nicola Porro che ormai ha un’audience sui social che è quasi più grande del numero di lettori del giornale di cui è vicedirettore. Forse però molti giornalisti sbagliano nella scelta del mezzo: tutti sono su Twitter che non ha il successo di pubblico che ha Facebook. Un problema che potrebbe dipendere dall’autoreferenzialità della categoria.

Tornando alla questione di eventi come l’elezione di Trump, ma anche della Brexit, io ho come l’impressione che ci sia un bias di conferma in atto. Quotidiani e tv sperano in un risultato e quindi, anche inconsciamente, fanno il tifo perché si realizzi. Questo credo che ne influenzi l’obiettività, portandoli a minimizzare ciò che non è mainstream».

I Paesi democratici, però, hanno ancora bisogno della credibilità delle fonti informative e della veridicità della notizia. Oggi al contrario sembra che la viralità di un contenuto social non sia più legata alla credibilità delle informazioni.

«Questo è un punto interessante. Io penso che la gerarchia delle fonti e delle notizie continui a essere molto importante e che sia dettata dai media tradizionali. Tutto sommato, persino i blogger di 20 anni leggono Corriere.it e si fanno un’idea sulla gerarchia delle notizie. C’è poi chi, anche senza una forte testata alle spalle, riesce a costruire la propria autorevolezza grazie a questi nuovi strumenti. Il problema semmai nasce con chi si informa esclusivamente su Facebook: i nostri amici più seguiti e preparati diventano gli influencer di riferimento, persone a cui ci rivolgiamo per il nostro bisogno informativo. In questo caso la gerarchia delle notizie salta. Qui però si innesta un dibattito secondo me interessante: chi è che decide la gerarchia della notizia, il lettore/fruitore o il giornalista?».