La persuasione del turpiloquio sul Web

In questo articolo, scritto a quattro mani con Pierluigi Vitale (Social media analyst e fondatore di Socialistening) approfondiremo le dinamiche di persuasione relative alla disseminazione dei contenuti informativi sulle principali piattaforme digitali.
In particolar modo intendiamo porre l’attenzione sulla persuasione del turpiloquio.
Nell’ultimo periodo si evidenza una tendenza ad utilizzare una terminologia sempre meno aulica, che lascia il posto a forme gergali e per di più volgari. In particolar modo, a partire dai contenuti dei blog, per poi lentamente pervadere anche i contenuti che, per mission, si definiscono di informazione si palesa un utilizzo del turpiloquio, con particolare riferimento ai titoli, che parrebbe essere diventato una sorta di “rafforzativo autorevole”.
Quest’ultima potrebbe risultare un’interessante chiave di lettura del fenomeno, che in un certo senso ne motiverebbe il dirompere, ma fa i conti con una seconda anima che sembra muovere, in quota maggioritaria, questa tendenza: la persuasione e l’attrazione dell’utente.
Questa tipologia di format comunicativo affonda a piene mani nella cultura nazionalpopolare dei mass media italiani, tipica degli anni 80’ e 90’, in cui la tv commerciale ha visto il fiorire di format televisivi noti per essere più sboccati che comici, più trash che leggeri, più sguaiati che di intrattenimento, ottenendo tuttavia dei risultati molto interessanti, perché evidentemente in grado di dialogare a un pubblico plebiscitario in un contesto culturale che si prestava a una comunicazione scevra di troppi formalismi.
Lungi da noi sindacare sulla qualità dei contenuti prodotti in base alla terminologia utilizzata, memori di quanto la lingua volgare abbia significato per il processo di alfabetizzazione e progresso culturale della nostra società. Ciò che ci interessa approfondire ed indagare è il fenomeno dell’utilizzo di parole (e immagini) che trascendono il buon costume meramente per finalità persuasorie. Speculative.
In regime di information overload – nelle fattispecie in esame – la qualità intesa come tratto distintivo cede il passo alla volgarità, come elemento di ingaggio dell’utente.
La lingua mal-parlata come esca e non come pretesto.
La tendenza ad estorcere, più che ad invogliare, la lettura.
Il parallelismo delineato con la tv commerciale che trova i propri esempi più “illustri” nel Bagaglino (con comici e dialettica del calibro di Martufello, con buona pace di Leo Gullotta) riesce difficilmente immaginabile, in virtù della differenza di contesto, ma è proprio questo il quadro di maggior interesse.
Il comun denominatore è la volgarità, che però trasla la propria azione dall’intrattenimento all’informazione, attività che hanno ben diverse ragion d’essere, con quest’ultima che è importante componente concorrente alla creazione del valore più imperituro esista: la cultura.
Fenomenologia dell’Infotainment
di Benedetto Motisi
L’informazione-spettacolo, secondo il neologismo inglese, è il matrimonio d’interesse di due tipi di comunicazione che sarebbe stata impensabile se non in quest’epoca di sovraccarico di stimoli.
Pur di suscitare scalpore, pur di rimanere evidente per quei pochi minuti, secondi, istanti nella corteccia celebrale degli utenti (non più lettori, ma veri e propri usufruitori, consumatori di informazioni); la notizia si mette i lustrini della prima (e talvolta seconda) serata, scrollando addosso ai già citati usufruitori quel sangue delle notizie di cronaca nera, mostrando la scollacciatura profonda del sesso o esprimendosi con gergo da social sulle ultime di sport.
Le tradizionali 3 S del giornalismo diventano quattro (l’aggiunta del Social, per l’appunto, da leggersi come mood di intendere l’informazione e non strumento) e non più sibilanti, ma urlate, come se fosse l’ultimo baluardo prima di cadere nell’eterno sonno di una catatonia fiabesca.
L’infotainment digitale italiano riprende le particolarità e i linguaggi del media che l’ha preceduto, la televisione, e del suo ultimo periodo storico.
Sono un fermo sostenitore della libera scelta in modo pannelliano (non per moda post-mortem ma per avere avuto effettivamente l’opportunità di formarmi a quella scuola di pensiero a inizio carriera).
Soprattutto in un’epoca in cui tutto è alla portata di un click, per utilizzare una figura cara agli analogici, la censura o la lottizzazione di uno spazio cloud come Internet è distopia che si fa paurosa realtà.
Purtuttavia, in questa precisa epoca storica di ribollente fervento, dove si cavalca l’onda o si è travolti, è necessario saper stare dritti in piedi sulla tavola da surf sull’infodump prodotta. In un vecchio post parlavo di generazione gianologica, riferendomi a chi (come Pierluigi e me) nato all’inizio degli anni ‘80 fino alla fine dei ‘90, ha vissuto gli anni formativi dell’adolescenza nella società analogica per poi diventare adulti (oggi si direbbe young adults) in quella digitale – avendola vista pure evolversi.
L’ultima generazione a essere portatrice di una visione del mondo prima di Internet, la prima a rischiare seriamente di rimanere schiacciata sotto le macerie della post-apocalisse comunicativa, sociale, economica. Una generazione bifronte, per l’appunto.
Forse l’unica in grado di poter sviluppare le tecniche di surfing informativo, perché non troppo influenzata dai vecchi miti né con gli occhi imbevuti soltanto di notifiche sempre più veloci, sempre più ignorate.
A noi, professionisti, giornalisti o semplicemente lettori collocabili in questo spazio, il compito di traghettare un modo corretto di informare da una sponda all’altra, inquinandolo il meno possibile.
Il fiume, per intenderci, è il Sarno.
4chan, il brodo primordiale dei fenomeni sociali della Rete
Conosci 4chan? È uno dei portali da studiare per la sua straordinaria carica di dissacrante relatività, capace di dare voce, immagine e testo alle più strane sotto-culture concepite dalla mente umana, community portatrice dell’unico valore dell’assenza di un Valore unico; una sorta di mondo attraverso lo specchio di Carrolliana memoria.
Navigare nelle sezioni del sito è una sorta di viaggio psichedelico, l’uomo medio benpensante lo definirebbe quantomeno una gabbia di matti, ma basta spostare la visuale un po’ più di lato per rendersi conto che ci si trova di fronte a una pozza dove ribolle, se non l’unico, uno dei brodi primordiali dei futuri trend di domani, ma anche di oggi, sia sul livello di argomenti che comunicativi.
Dissacrante, se ci fosse necessità di ridurre tutto a una parola.
Uno stile comunicativo, con molte sfumature, ormai diffuso anche su portali più autorevoli o blasonati, magari gli stessi che guardano a fenomeni sociali di questo tipo come al “male di questi tempi digitali” per poi schiaffare, su un’altra pagina, la galleria dei bambini massacrati in Siria, rigorosamente alternati ogni 2-3 immagini dalla pubblicità di una marca di pannolini per culetti paffuti.
Attenzione, non è una critica morale, semplicemente una constatazione del fatto che il “bel pensiero” o il “buon costume” sono ormai relegati al ruolo di sparring partner per non lasciare sul ring un solo contendente.
Qualcuno dice che un cattivo professore può fare più danni di un cattivo medico.
Quanti danni può fare un’informazione fatta di stimoli viscerali?
Un paradosso altrettanto interessante risiede nel fatto che si tratta, sostanzialmente, di un fenomeno di ritorno.
Negli utimi anni i format televisivi sopracitati hanno vissuto una fase di “rieducazione” che ha decretato per alcuni la chiusura e per altri la modifica di alcuni elementi troppo vistosi. I tempi delle veline seminude, delle espressioni più che sboccate, dell’ignoranza manifesta (salvo alcuni programmi che mantengono fieramente lo stendardo) sembrano essere finiti in soffitta, o relegati a programmi più irrisori e denigratori che altro, con ciò che viene intesa come “vecchia tv”.
E allora come è possibile che fenomeni da vecchia tv vengano riproposti sui nuovissimi media?
Si registra una sorta di equazione Keynesiana che raggiunge il punto di equilibrio spostando la quota di volgarità da un media all’altro, soddisfacendo desideri e bisogni di un pubblico che in realtà è rimasto immutato?
La persuasione della parolaccia
di Pierluigi Vitale
La “parolaccia”, una volta condannata e legata a una figura di basso profilo culturale, è ora sdoganata e anzi, sui social network nascono come i funghi le pagine che inneggiano all’ “ignoranza” e a un substrato pecoreccio.
Si è costituito un pubblico.
La comunicazione è rapida, troppo rapida per stare attenti a errori (od orrori) di grammatica e figurarsi di ortografia. Gli eserciti dell’informazione non si affrontano più a viso aperto sul campo di battaglia, lasciando la vittoria a chi ha portato la propria Verità (andiamo, la storia la scrivono i vincitori) grazie a fini strategie.
No, ormai tutto assomiglia a una sorta di scaramuccia con pistole ad acqua e palloncini scorreggioni, dove alla fine, in fondo; non conta davvero il come e il perché ma l’adesso.
Ti invito a riflettere su uno dei più recenti casi di successo nel giornalismo italiano. Fanpage, con cui collaboro a progetti di data journalism, si è posizionato in un settore ostico e difficilmente penetrabile a partire da una comunicazione prettamente social, fatta molta quantità e poca qualità; acquisizione massiva di fan sui social attraverso l’utilizzo di immagini e evocative e non pertinenti; pubblicando contenuti principalmente facendo click-baiting o di gossip spietato; promuovendo “articoli” sul brufolo più grande del mondo et similia.
Oggi Fanpage produce inchieste e contenuti editoriali di tutto rispetto, che ne stanno costruendo reputazione e credibilità online, facendo i conti con un passato (ma anche un zoccolo duro di lettori) che ne è croce e delizia.
Per i newsbrand tradizionali sta avvenendo il processo inverso.
Lavorare sui ritmi, sui numeri, sugli stimoli viscerali è al momento – ahimè – una delle best practices che si può scegliere di mettere in campo.
Valigia Blu e Wolf, non per galanteria, sono l’altro polo, quello che fedele a sé stesso fa un lavoro certosino sui contenuti, abbassa i ritmi, punta sulla qualità. Lodevole, preferibile, ma meno profittevole nel breve periodo. Ed è questa la ragione per cui c’è un proliferare del primo format, con l’aggravante che i numeri lusinghieri delle interazioni non sempre poi danno inizio a una fase di investimento sulla qualità, come accaduto per Fanpage, ma spesso finiscono per incrementare la quota di infotainment.
Similmente a questo gioco, ci si ricorda solo chi ha inzuppato di più gli altri (spargendo quindi tanto contenuto) o a chi ha tirato il palloncino che ha fatto il botto più grosso.
(Benedetto) Sempre mostrandomi scevro da qualsiasi indicazione morale, è un po’ come andare nel paese dei balocchi con l’intento preciso di cercare la trasformazione asinina. Del resto, le grandi miniere di informazione non hanno bisogno di polverosi letterati saltafossi in panciotto.(Benedetto)
Si tratta di un qualcosa insito nella natura umana: quanti, durante una rissa (o un agone perenne, quale è la quotidianità) urlano o imprecano e quanti restano calmi, impassibili o cercano di volgere la situazione a proprio favore a mente lucida? Fra questi ultimi, ancora più rari, sono quelli che si prestano al gioco dell’urlare ANCORA più forte, ricalcando l’altrui comportamento per poi incanalarlo a proprio piacimento (ricalco e modellamento sono le due delle fasi della persuasione secondo la PNL).
Google e Facebook: paladini del bel pensiero o semplice calcolo?
In questo senso, come si muovono i due maggiori portali della Rete, veicolo di informazione?
Sui motori di ricerca, nonostante la presenza inevitabile di documenti volgari, questi sono “esclusi” dal radar dei tool che analizzano i trend online o auto-completano le ricerche dell’utente, venendo meno al ruolo persuasivo di spinta a una particolare ricerca. Una linea di condotta che vuole seguire – nel caso di Google – quel “don’t be evil” di cui si fa promotore.
Tuttavia, questi contenuti sono poi indicizzati ricercando le ESATTE parole, non fosse soltanto per non perdere quell’enorme traffico proveniente da ricerche di quel tipo. Come diceva all’epoca uno dei miei maestri di Search Engine Optimization: se Google non indicizzasse il porno, le volgarità o siti pirata, nascerebbe un motore in grado di mangiargli quest’enorme fetta di mercato.
Per tutto il resto (ovvero l’illegalità conclamata) esiste il deep web.
A questo punto, posto il fatto che i motori di ricerca non premiano questo tipo di dialettica, si registra un precisa scelta strategica, che scientemente rinuncia a raggiungere gli utenti sulla base delle proprie ricerche, e quindi in base al contenuto proposto, per incontrare gli utenti sulla base dei fattori casuali e algoritmici dei social media, dove la contesa (in questo contesto) si sposta unicamente sul piano della persuasione, compiuta per mezzo di parole e immagini sopra le righe.
Le persone possono arrivare (e arriveranno) a quell’indirizzo solo se stuzzicate nel nanosecondo di uno scrolling social. La parolaccia o l’immagine scabrosa sono l’esca più potente. Gli algoritmi social hanno il grande “pregio” di incasellare ogni nostra scelta in database che costruiscono il nostro profilo psicologico. Facebook (per parlare del più popolare) ormai conosce benissimo chi sono i cacciatori di immagini shock e saranno proprio loro ad essere, ancora una volta, il bersaglio di questo genere di pubblicazioni, che in virtù di un pubblico che va consolidandosi troverà difficilmente modo di essere arginata nel breve periodo.
L’articolo si muove su due degli assunti della credibilità di Fogg, il padre della Captologia (la scienza che studia la persuasione attraverso i computer): principio della facilitazione sociale – ovvero dell’entrare a far parte, e quindi essere credibile, per quella (larga) fetta di utenti che è abituata a un certo gergo – e il principio di influenza sociale.
Utilizzare un registro linguistico gergale e volgare incontrerà sicuramente un pubblico che trova conforto e stimolo in questo format comunicativo. Soggetti che utilizzano questo tipo di linguaggio, specie in riferimento a temi specifici, sentiranno il contenuto come più reale in virtù di una maggior capacità di decodifica, che aumenta le possibilità sia di assimilare i contenuti che di percepirli come attendibili. Le bufale si propagano in rete perché fondate su una grande fiducia, in primis, del “luogo internet”, ma anche per essere raccontate spesso in parole povere per un’informazione sempre più mordi e fuggi che sappia evadere sistemi cognitivi di “autodifesa”.
Va da sé che questi contenuti sappiano essere anche molto influenti, perché capaci di catalizzare sempre il giusto numero di interazioni, da non leggersi come consensi, che inevitabilmente ne sostengono una propagazione non controllabile. Propagazione che, come detto, si direziona verso il pubblico interessato. È un mix letale di componenti tecniche e cognitive.
La dura realtà, vale la pena ribadirlo, è che per tutto questo esiste un pubblico e finché esisterà difficilmente sarà scardinato questo workflow.
Una parolaccia ci seppellirà?
Siamo dell’idea che, come produttori di informazione in un mondo che si regge sulla domanda e offerta, ciò che bisogna fare è soddisfare il bisogno degli utenti. Possiamo scegliere consapevolmente di cavalcare l’onda dell’infodump e per farlo bisogna essere allenati a non rimanere inghiottiti nei flutti dell’esagerazione.
Esiste anche la scelta di perseguire lidi più tranquilli, nicchie di mercato che, per tipo-personas, gradisce un altro registro, alternativo all’”orgoglio ignorante” che ha la massima espressione in questo periodo storico.
Come asseriva Immanuel Kant “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me” e mai oggi queste parole sono veritiere.
Anche se forse diremmo “il logo di Google sopra le SERP (o le notifiche in timeline), la legge morale dentro di me”.
Come agire?
Difficile trovare una ricetta unica per contrastare il fenomeno. Come detto, da traghettatori abbiamo il dovere di perseguire principalmente due finalità.
In prima battuta, da content creator, c’è la necessità di ripulire il flusso informativo. Occorre produrre contenuti che sappiano essere semplificati ma non banalizzanti, comprensibili ma non volgari, impattanti ma non shockanti. Il ruolo storico del volgare, rievocato all’inizio di questo testo, non è da soppiantare ma è da recuperare. Quando per volgare si intendeva una lingua alla portata di tutti e non la controfigura sguaiata di sé stessa.
Non c’è necessità di perdersi in lunghe perifrasi, ma è criminoso svilire i processi informativi selezionando le parole per finalità speculative.
Strategicamente, il pubblico intercettato da contenuti shock è un pubblico irriconoscente. Un pubblico che difficilmente sceglierà ancora la fonte di informazione ma sicuramente sceglierà il prossimo contenuto sopra le righe. Non è un pubblico su cui investire nel lungo termine.
Il secondo vettore da perseguire è quello di ri-abituare le persone a cercare.
Allo stato attuale l’informazione si veicola attraverso due grandi player.
Su Google le persone trovano contenuti in base alle proprie istanze.
Su Facebook i contenuti intercettano le persone sula base delle proprie preferenze.
Il primo è un colosso, il secondo è un fenomeno in crescita dilagante, che palesa la grande ambizione di riuscire a fare come e più del primo.
Non bisogna fare una scelta tra Facebook e Google, ma bisogna educare alla ricerca. Riportare l’uomo al centro dei processi di selezione delle informazioni, tenendo la giusta “distanza” dai media, che sono il luogo in cui questa viaggia e si propaga ma a cui non va lasciato l’onere di scegliere.

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